Alessandro Speziali

Riforma fiscale: ci scambiamo un segno di pace?

17 novembre 2019

Un’economia per «soggetti alfa» - Il mercato del lavoro è sempre più competitivo e pretende persone iperperformanti, docili e flessibili. La digitalizzazione spinge la produttività a livelli vertiginosi e i robot reclamano a sé compiti che pensavano sarebbero per sempre rimasti una nostra esclusiva. La formazione non forma più per un lavoro che ci accompagni fino alla pensione, ma è solo il prologo della nostra vita, che si muove a saltelli da una riqualifica all’altra. Le frontiere ormai aperte ci riversano addosso bacini di lavoratori iperspecializzati e affamatissimi. Le aziende parastatali, a cominciare dalle ex regie federali, hanno cambiato forma e sono orientate ai risultati d’esercizio più che alla loro funzione di collante del Paese. La globalizzazione economica ha portato milioni di persone a un benessere materiale prima sconosciuto, in ogni angolo del Pianeta. Ogni «giovane 4.0» può guadagnare cifre a 5 o 6 zeri con un telefonino, una connessione Wi-Fi e l’idea giusta; un esercito di trentenni ha così raggiunto successi professionali un tempo riservati agli over 50. Ovunque leggiamo storie di chi ha escogitato la tavola da surf ideale per cavalcare l’onda delle opportunità, e costruirsi un futuro roseo.

 La dissoluzione delle certezze - Questo trambusto ha spazzato via gli stili di vita dei nostri genitori, le loro certezze e le loro routine. Formati, trovati un «lavoro fisso», aspetta la pensione: così suonava la promessa che sorreggeva il mondo del lavoro negli anni del boom economico. Il grigiore impiegatizio sul quale scherzava Paolo Villaggio, con il suo ragionier Ugo Fantozzi, oggi balena di fronte ai nostri occhi quasi come un miraggio. Chi termina i propri (3+2+…) anni di studi superiori deve spedire carriolate di CV e affrontare percorsi a ostacoli, fatti di stage e periodi di prova. Se poi ha la fortuna di trovare un lavoro, probabilmente lo vedrà messo in discussione entro qualche anno. Le ex PTT, l’Esercito, le FFS – ma anche banche ed assicurazioni – non sono più né un porto sicuro né un refugium peccatorum: la rete di sicurezza, fatta di posti di lavoro disseminati in ogni angolo della Svizzera, si è sbrindellata in modo irreparabile.  Le turbolenze della congiuntura ci sbattono qua e là, e non esiste pietà per chi si fa cogliere impreparato, costa troppo o può essere sostituito dall’automazione. Il volto dell’economia è bifronte: ci mostra luci abbaglianti, ma per chi si trova sul suo lato sbagliato proietta ombre che possono essere lunghissime.

 I cantastorie della politica - Non è una sorpresa che, in questo contesto, siano cresciute nuove mitologie, visioni della realtà profilate e perentorie. Ci sono i disfattisti di professione, che cercano e piegano i dati che servono loro per confermare un pessimismo a oltranza. Sull’altro lato, c’è invece chi enfatizza ogni dato positivo e parla solo di «start up» e «unicorni» – come se il biglietto vincente della lotteria fosse alla portata di tutti. Da una parte vengono invocate le bastonate contro manager, imprenditori e associazioni economiche. Dall’altra si scuote la testa con fastidio, invitando tutti a togliersi la famosa «paglia» da là sotto, perché il successo è lì che ci aspetta. Purtroppo, la dialettica fra «vincenti» e «perdenti» è quanto di meno svizzero possa esistere – e non ci porterà lontano.

 Dobbiamo andare d’accordo - Il merito di questo antagonismo fra ideologie è stato di squillare come una sveglia: chi era arenato su posizioni lontane dalla realtà economica ha capito che tutti dobbiamo buttarci nella mischia – affinché le crepe non si trasformino in voragini. Per i moderati della politica, ciò significa percorrere il territorio rasoterra, senza grandi proclami e mettendo via il burocratese. Bisogna vivere nelle associazioni, nei quartieri, nelle bettole. Bisogna condividere preoccupazioni e successi dei nostri concittadini. Il bello è che si tratta di uno sforzo che ha il potenziale per moltiplicarsi, per diventare contagioso. Non è possibile che diventino «virali» solo le cazzate del web. È ovvio che chi ha costruito il proprio successo elettorale facendo l’ultrà non accetterà di sedersi in tribuna: tuttavia, non siamo pochi ad aspettare l’occasione giusta per contribuire a soluzioni reali, e vi assicuro che siamo pronti ad abbassare una spalla pur di raggiungerle. Non si tratta solo di coinvolgere le forze politiche. Mi piacerebbe vedere le associazioni economiche cimentarsi con nuovi registri, muoversi fra la gente, mostrare il volto umano dei propri rappresentanti e soprattutto delle proprie idee. Mi piacerebbe, ma forse qui esagero, che i giornalisti facessero la loro parte, sottolineando i passi avanti invece di fare da megafono alle schegge impazzite del sistema.

 Perché non iniziare dalla riforma fiscale? Il popolo capirà le difficoltà delle aziende, accettando un fisco più vicino alle loro richieste? Riconoscerà che le fasce più benestanti della popolazione non sono una cricca di egoisti, e che una loro partenza non farebbe il bene di nessuno? Questa riforma fiscale è necessaria, ed è anche stata costruita per essere giusta – ma non basta. Occorre ripristinare la ricetta del successo elvetico – la pace sociale – e ritrovare la connessione con la colonna vertebrale del nostro Paese: il ceto medio.