Appunti e coerenza di un viaggio elettorale
12 maggio 2019
La democrazia e il federalismo vivono solo se hanno abbastanza persone disposte a servirli. È il primo motivo per cui mi piace mettermi a disposizione di una politica che – e qui la seconda regola – deve giocarsi rasoterra: un paese è fortunato quando le istituzioni sono accessibili a tutti e i loro rappresentanti frequentando il mondo reale. Quest’ultimo è un aspetto sempre più importante in un momento in cui la coesione sociale è minacciata da crepe che si stanno allargando, e che dobbiamo in ogni modo riavvicinare prima che diventino faglie tettoniche.
Il compito dei politici è di fungere da collante, o perlomeno da ponte. Il mondo economico fa sempre più fatica a spiegare le proprie ragioni all’uomo comune. Il lavoratore, spesso alle prese con una corsa al ribasso delle condizioni di lavoro, non riconosce più il ruolo trainante dell’imprenditore. Come una salsa maneggiata da mani poco esperte, il dibattito politico impazzisce al punto che molte persone sviluppano un’intolleranza alla politica. Ogni giorno, sui media e sui social, assistiamo a discorsi più degni di Aldo Biscardi che di Franco Zorzi; e così ampie fasce della popolazione si disinteressano della politica. Il nostro ruolo, mi sia concesso un omaggio al gergo militare, è invece quello di uomini di collegamento fra gruppi di individui che si percepiscono antagonisti, ma che necessitano una sintesi dei propri bisogni. E il ruolo dei sindacati è il medesimo: favorire la pace sociale – come il SIT – anziché affilare le armi a oltranza (gli esempi non mancano).
Durante la campagna delle elezioni cantonali non ho voluto partire da un assunto generale, per poi individuare conferme puntuali e scartare le verità scomode. Lo spirito critico non è una mazza da usare contro gli avversari politici, ma uno strumento per mettere alla prova le nostre conclusioni, confrontandole con la o, meglio, le realtà.
Indignarci in aeternum per l’ascesa del populismo (qualunque cosa questa parola voglia dire) e le pulsioni sovraniste serve a poco. Ancor meno quando si denuncia gli eterni fascisti ritorno. Indignarsi senza frequentare, senza comprendere e senza ammettere quotidianità scomode è un approccio politico (e non solo) perdente. Certo, oggi il dibattito politico vive momenti sconcertanti che offendono qualsiasi dimensione istituzionale. Da subito ho voluto, però, congedarmi da una forma di indignazione costante per immergermi appieno nel Paese.
Ormai abbiamo alle spalle decenni di crescita e redistribuzione probabilmente irripetibili, nei quali erano le certezze a dettare i ritmi della vita: la certezza del lavoro, la certezza della pensione, la certezza dei ruoli sociali e dei costumi. Tutto oggi invece evolve, si fa flessibile e immateriale. Le regie federali, tanto per fare un esempio, non sono più motrici di sviluppo sociale che comprendevano – ammettiamolo – programmi occupazionali per i meno capaci o motivati. Molti settori dell’economia producono beni e servizi impalpabili, esposti come una bandiera al vento alle regole e alle dinamiche internazionali. La politica deve concentrarsi sulle molte opportunità dell’epoca digitale, ma guai restare ciechi di fronte alle notevoli inquietudini generate da questa rivoluzione. Una rivoluzione che sinora non sta mantenendo la sua promessa principale: liberare progressivamente l’uomo, affinché possa dedicarsi di più e meglio alle proprie passioni, alla famiglia, al tempo libero, alla propria esistenza.
Commesse, idraulici, segretarie, giovani ingegneri, barbieri, cuochi e banchieri che sentono il fiato sul collo: sottooccupazione, erosione dei salari, fallimenti pilotati, precarizzazione e automazione sono insidie concrete. Non basta sventolare le statistiche scintillanti della SECO sulla disoccupazione e sul PIL. I numeri aggregati rappresentano una verità, certo, ma la verità non è mai una sola. Ecco il perché di uno dei miei slogan preferiti: “i Ticinesi non sono una statistica”.
Una campagna elettorale serve a raccogliere, spiegare, calmare, motivare, agire. Questo è il lavoro politico che mi piace, e questo è il lavoro politico che mi impegnerò a fare. Un lavoro caldo, nel quale la freddezza delle cifre è animata grazie a una scarica elettrica di vissuti, sfruttando anche le due Commissioni a cui tenevo molto: la Commissione formazione e cultura e la Commissione economia e lavoro. Così potrò sfruttare e concretizzare gli appunti che ho preso in questi mesi che hanno preceduto il 7 aprile scorso: una coerenza che avevo promesso, perché c’è chi ancora non è del tutto disilluso dalla politica.