Forse l’intelligenza artificiale non ci darà scacco matto
07 marzo 2019
«Vent’anni fa sono io ad avere sfidato Deep Blue, perciò penso mi sia permesso dire che l’intelligenza artificiale non ci porterà alla fine del mondo». Sono parole di Garry Kasparov che mi hanno stimolato alla riflessione sul nostro rapporto e sulle nostre paure verso l’evoluzione tecnologica. Quando poi ho guardato su YouTube un recente match fra giocatori non umani, ho capito molte cose. Imparando da solo a giocare in una mezza giornata, l’algoritmo AlphaZero (Google) ha stracciato il migliore software scacchistico al mondo, Stockfish, battendolo 28 volte e non perdendo mai.
La cosa interessante è che AlphaZero ha dimostrato uno stile di gioco sorprendentemente umano, lasciando a bocca aperta gli esperti per una propensione al rischio al limite della spericolatezza. Di fronte al conservatorismo dei programmi tradizionali, che grazie alla forza bruta del loro potere di calcolo creano fortezze difensive inespugnabili, l’intelligenza artificiale si è imposta grazie alla capacità di invenzione e di previsione al di là di ogni possibile comprensione umana.
Questo aneddoto mi porta all’interessante dibattito che ho avuto qualche sera fa con il Consigliere di Stato Manuele Bertoli e numerosi ospiti d’eccezione, fra i quali il direttore dell’Istituto Dalle Molle per gli studi sull’IA, Luca Maria Gambardella, e Daniele Parenti, direttore del Centro di risorse didattiche digitali. Tema della discussione era come la nostra scuola potrà rispondere alle sfide della digitalizzazione.
Come è accaduto per gli scacchi, la sensazione è che il futuro a medio e lungo termine ci porterà a scenari del tutto imprevedibili, e all’emergere di realtà di fronte alla cui potenza mentale saremo più o meno nella posizione di un gatto di fronte a un essere umano. E allora, dobbiamo lasciarci andare alla disperazione per la nostra prossima estinzione ad opera di un’intelligenza artificiale ostile?
Le macchine hanno sì una capacità di calcolo sovrannaturale, ma hanno bisogno di qualcuno che decida per loro dove questa abilità dovrà essere impiegata. In altre parole, il futuro che ci dovrebbe attendere è quello in cui non saremo in competizione con le macchine, ma in collaborazione per sfruttare al meglio il loro potenziale pressoché illimitato. Il quadro non è quindi così fosco, se (e solo se) però gli esseri umani al timone dello sviluppo tecnologico si mostreranno marinai saggi.
E la nostra scuola, cosa dovrebbe farsene di queste riflessioni? Ridiscutere per esempio i propri paradigmi per rispondere alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia. Oltre al necessario investimento di 47 milioni nell’informatizzazione delle scuole cantonali che il Parlamento affronterà presto, si tratta di agire molto più in profondità sulla struttura stessa dello stare in classe. L’insegnamento frontale è un modello che non può essere considerato eterno: provoco se penso di affidare la «lezione» a YouTube, e di dedicare il tempo in classe a esercizi o attività interattive, o magari ad attività manuali o visite in azienda? E ve lo dice uno che guarda con una certa nostalgia alla predella …
Il ripensamento del nostro sistema scolastico è solo iniziato, ma sarà di sicuro uno dei cantieri politici e culturali più eccitanti dei prossimi anni. Chiunque avrà il compito politico di dirigere la scuola ticinese dovrà dedicargli il massimo delle proprie energie, mostrando la capacità di coinvolgere e accompagnare in questa avventura i suoi protagonisti, insegnanti e allievi, accettando l’idea che non possiamo presentarci di fronte all’ignoto con idee o riforme preconfezionate.