Alessandro Speziali

Perché mi candido al Consiglio di Stato

13 ottobre 2018

È curioso come la passione per il mio Paese mi riporti proprio qui, a Bellinzona. Avevo 8 anni e assillai i miei genitori finché mi portarono a vedere la grande festa per il 700esimo della Confederazione. Anche da piccolo avevo le idee chiare. E sì, sono fiero di essere svizzero – da sempre (discorso pronunciato al Comitato cantonale del 13 ottobre 2018).

Prima della mia lunga luna di miele con la cucina e la gastronomia, con la quale ho già contagiato o stufato molti di voi, la mia prima  passione è stata proprio la Svizzera. Un affetto sincero, che non ho mai considerato come un obbligo di essere nel contempo anche contro qualcuno o qualcosa. Forse la penso così perché fin da quando giocavo sui monti di Paudo, proprio sopra le nostre teste, ho sentito parlare del Ticino e della Svizzera: un modello da ammirare e servire con dedizione. Da sempre, mi è stato chiaro che lo spirito di servizio e il senso di appartenenza sono le fondamenta del miracolo elvetico.

La risposta alla domanda sul perché della mia candidatura, quindi, è in questa passione precoce. Ma se mi metto a disposizione, oggi, è soprattutto perché mettersi a disposizione è quello che fanno le persone che amano questo Paese veramente. Partecipare alla vita delle istituzioni significa infondere vita nel sistema federalista; perché la democrazia diretta può vivere solo se ha abbastanza persone disposte a servirla.

Negli scorsi anni, le nostre istituzioni mi sono impegnato a studiarle e a viverle, a tutti i livelli. Dal Comune al Cantone alla Confederazione. All’università, in Consiglio comunale, come collaboratore di Giovanni Merlini a Berna e quando lavoravo per la Sezione degli enti locali. Da qualche mese sto vivendo un nuovo capitolo, avventuroso e diverso da tutti i precedenti: ho lasciato la sicurezza dell’Amministrazione cantonale per dedicarmi a progetti regionali in Valle Verzasca, e cimentarmi con il rebus di come rilanciare una regione alpina nell’era digitale.

In ogni giorno di questo mio lungo percorso è cresciuta l’idea che l’utilità delle istituzioni è proporzionale alla loro capacità di mostrarsi amiche del cittadino. Un Paese è fortunato se la sua politica è in grado di rimanere accessibile a tutti. Se i suoi eletti frequentano il mondo reale, e non solo i salotti o gli uffici. Se amministrati e amministratori non appartengono a gruppi sociali impermeabili fra loro, ma a un unico bacino nel quale possono interagire. Se mi candido, insomma, è perché credo in un federalismo liberale basato su istituzioni vicine al territorio.

Ma non è tutto, care e cari delegati. Mi candido anche perché negli ultimi anni qualcosa si è incrinato. E non poco.

La coesione sociale del nostro Paese – e in particolare del nostro Ticino – è minacciata da crepe che si stanno allargando, e che potrebbero diventare faglie tettoniche. Il mondo economico fa sempre più fatica a spiegare le proprie ragioni all’uomo comune. Il lavoratore non riconosce più il ruolo trainante dell’imprenditore. E come una salsa maneggiata da mani poco esperte, anche il dibattito politico sta impazzendo, al punto che molte persone sviluppano un’intolleranza e poi una vera e propria allergia alla politica. Lo sapete bene: ogni giorno, sui media e sui social, assistiamo a discorsi più degni di Aldo Biscardi che di Franco Zorzi.

Il risultato è che ampie fasce della popolazione si disinteressano della politica, e che i diversi ecosistemi della nostra società si allontanano gli uni dagli altri. Il ruolo che sogno per me, se mi concedete un omaggio al gergo militare, e quindi quello di uomo di collegamento, fra gruppi di cittadini che si stanno sempre più allontanando.

Mi preme anche che, come liberali, riconosciamo le vere cause di queste dinamiche. Lo dico con chiarezza: congediamoci da quella forma molesta di indignazione che strilla contro i “populismi” o – peggio ancora – evoca i fantasmi del fascismo. Riprendiamo a usare il senso critico per capire la società, cari liberali, e non come un manganello contro gli avversari politici.

Stiamo vivendo un periodo di transizione da un Paese che ha vissuto anni probabilmente irripetibili, nei quali erano le certezze a dettare i ritmi della vita. La certezza del lavoro, la certezza della pensione, la certezza dei ruoli sociali e dei costumi. Tutto oggi invece evolve, si fa flessibile e immateriale.

Come sostenitori dell’economia, è ovvio che ci concentriamo sulle opportunità dell’epoca digitale; ma come politici, non possiamo essere ciechi di fronte alle notevoli inquietudini generate da questa rivoluzione. Guardiamo pure lontano con il cervello, proiettiamoci in avanti; nel contempo, però, permettiamo al cuore di voltarsi indietro, verso chi non ce la fa a tenere il passo, o magari è solo un po’ spaventato.

Ci sono commesse, idraulici, segretarie, giovani ingegneri, barbieri, cuochi e banchieri che sentono il fiato sul collo. Sottooccupazione, erosione dei salari, fallimenti pilotati, precarizzazione, automazione. Non basta sventolare le statistiche scintillanti della SECO sulla disoccupazione e sul PIL. I numeri aggregati rappresentano una verità, certo, ma la verità non è mai una sola.

Il nostro compito è di convincere i nostri concittadini che oggi stiamo davvero meglio, rispetto agli anni ’90. E dobbiamo farlo con concretezza e con esempi pratici, parlando del negozio nella via di casa nostra e della falegnameria all’imbocco della valle. Questo è il lavoro politico che mi piace, e questo è il lavoro politico che mi impegnerò a fare. Un lavoro caldo, nel quale la freddezza delle cifre è animata grazie a una scarica elettrica di vissuti.

Care e cari liberali-radicali, queste non vogliono essere solo parole vaghe. E quindi diciamocelo. Non possiamo nascondere che c’è un settore più importante di altri per dettare il modo in cui affronteremo le sfide del futuro, dalla coesione sociale alla rivoluzione digitale. Otto anni fa abbiamo ceduto il controllo della scuola ticinese, e a volte sembra quasi che sia passato un secolo. E invece la scuola ticinese è un edificio liberale radicale. È il luogo nel quale il Ticino moderno è stato costruito. Dobbiamo riconquistare e riaprire un cantiere, per costruire la scuola che piace. Che piace perché combina inclusione e competitività, secondo l’interclassismo che contraddistingue il nostro Partito.

Non dimentichiamo mai che il nostro è anche il partito della cultura e della sensibilità; il partito che accanto all’inventiva economica e fiscale liberale aveva la sensibilità e la finezza di Giuseppe Buffi. È chiaro che non oso paragonare me stesso a nessun gigante del passato; di certo, però, so di appartenere alla corrente di chi vuole un liberalismo che abbia un impatto nel sentire comune, e non solo sui libri contabili.

Vi ringrazio per l’attenzione, amiche e amici. Oggi non vi chiedo un applauso; spero solo che nei prossimi mesi mi accompagniate in questo viaggio. Ascolterò tutti i vostri suggerimenti, le correzioni e le critiche.

Perché il secondo seggio ce lo guadagneremo solo se tutti insieme lavoreremo per riprenderci questo Cantone. E forse, là fuori, ci chiedono proprio questo.

Vi ringrazio con sincerità