L’”identità” in politica: un nemico immaginario
05 dicembre 2017
Riflettere sulla propria identità è un esercizio che gli esseri umani svolgono da sempre; ci interroghiamo su noi stessi, sulla nostra collocazione nel mondo e nei differenti gruppi che compongono la società. Definiamo tratti condivisi ed elementi distintivi, in un’operazione che porta con sé il senso di appartenenza a una determinata comunità. Si tratta di concetti interiorizzati e poi trasmessi di generazione in generazione, con tutti gli effetti di distorsione e di perdita che questo processo comporta e senza che sia mai possibile dare corpo a elementi immutabili e incorruttibili. Ma queste fluttuazioni non impediscono il formarsi di una nebulosa di principi comuni che distingue la nostra comunità dalle altre che sono sorte, nella sterminata vastità del mondo e della storia.
Se vogliamo restituire una lettura onesta dei fatti, occorre riconoscere che dagli anni ’70-’80 del Novecento la povertà è diminuita e sono state costruite soluzioni comuni a numerosi problemi transnazionali. D’altra parte, sappiamo tutti che gli ultimi decenni ci hanno reso attori (in)consapevoli di processi che hanno accelerato l’orologio della Storia, ribaltando gran parte delle certezze che per decenni ci avevano coccolati. Il Pianeta è oggi animato da dinamiche implacabili, che premiano solo chi si dimostra capace di cavalcare l’onda del cambiamento. La mondializzazione sgretola i perimetri degli Stati nazionali e ne sradica le logiche economiche, culturali e sociali, consegnando territori un tempo ben definiti a un moto internazionale sempre meno governabile. Le risorse a disposizione degli enti pubblici e delle loro reti di salvataggio si vanno rarefacendo, mentre aumentano le frizioni culturali. Se a questi fattori di incertezza aggiungiamo un forte flusso migratorio, umanitario ma anche economico, il bilancio della globalizzazione si mostra come il dipinto di una trasformazione epocale, dalle abbondanti sfumature.
Una turbina di questa portata non poteva non investire le identità individuali e collettive, e il grande sistema chiamato a decidere del bene comune: la politica. Se la mondializzazione appare inarrestabile, si moltiplicano le voci che chiedono di riportare il potere decisionale entro una dimensione locale. In questo contesto totalmente nuovo, il liberalismo che ha costruito il benessere della nostra Confederazione è chiamato a reinterrogarsi sui propri principi di fondo, e in particolare sul delicato confine fra libertà personale e coesione sociale.
È ciò che avete visto accadere, nelle ultime settimane, anche sulle pagine di Opinione Liberale. La speranza è che il dibattito ci spinga a riflettere apertamente sul posizionamento del nostro partito rispetto a temi che non possiamo più ignorare. Nei miei contributi alla discussione ho utilizzato spesso la parola «identità», invitando a superare la paura di fare nostro un concetto oggi considerato marchio di fabbrica delle «destre». Sono infatti convinto che sia perfettamente ammissibile considerarsi liberali identitari senza cadere in un paradosso, se articoliamo il nostro pensiero lungo queste 4 direttrici:
1) Dimensione politica: federalismo, democrazia, sovranità
- Federalismo – L’organizzazione decentrata dei poteri statali è la sorgente del rispetto per le istituzioni. Il federalismo svizzero è un meccanismo delicatissimo di regole che consentono l’equilibrio fra le sfere locali e la macro-sfera nazionale, con il principio di sussidiarietà che garantisce la prossimità fra istituzioni e cittadini.
- Democrazia – Il federalismo funziona quando i suoi livelli decisionali sono autonomi. Violare l’autodeterminazione delle comunità significa innescare un circolo vizioso che dal disincanto porta all’indifferenza e infine al rancore. La centralizzazione è un fenomeno politico profondamente anti-svizzero e va combattuto in nome dei principi liberali.
- Sovranità – Un esperimento raffinato come quello della democrazia semi-diretta elvetica è ammissibile solo in una «piccola patria». I confini e l’indipendenza sono quindi i pilastri dell’identità politica svizzera (oltre che del nostro successo economico). Se l’Alleingang puro è impensabile, dobbiamo pertanto distanziarci da chi sogna di vedere gli Stati nazionali dissolversi in una presunta grande e armoniosa Unione europea.
2) Dimensione economica: fra imprenditorialità e pace sociale
- Libertà etica – «Prima i nostri» è una risposta urlata a chi, con tono mellifluo, ha per anni propagato l’idea che il «Laissez-faire» fosse la soluzione a ogni problema. Il libero mercato è tale solo perché qualcuno crea le condizioni per la sua libertà, e ogni azienda ha un debito verso il territorio che la ospita. La Confederazione ha ottenuto la sua elevatissima competitività internazionale grazie a procedure snelle e pragmatiche, ma anche per la capacità di tenersi lontana dalla tentazione di giocare al continuo ribasso.
3) Dimensione storica: una rete di esperienze, luoghi e relazioni
- Comunità – Condividere una narrazione sul «perché siamo chi siamo» rappresenta un collante fra persone e generazioni. Luoghi, eventi, esperienze e relazioni comuni producono un paesaggio familiare e una rete di relazioni – passate e future – che riduce il rischio di trasformarci in una moltitudine di persone pericolosamente atomizzate.
4) Dimensione culturale: uno stock di regole e invenzioni
- Usi e costumi – La consuetudine rappresenta un tessuto avvolgente, che struttura una società con regole scritte e non scritte. La prevedibilità dei comportamenti, per quanto limitata, è l’effetto del patto sociale per uscire dallo stato di natura.
- L’invenzione della tradizione – Dotarsi di miti, simboli e immaginari collettivi sarà anche un artificio, ma produce risultati reali: crea il senso appartenenza, alimenta la vita della comunità e permette l’aggregazione.
- Le radici cristiane – Nel bene e nel male, l’eredità del Cristianesimo impregna la nostra traiettoria, le nostre leggi, i nostri comportamenti. Siamo i discendenti culturali di un insieme di dogmi che, per quanto criticabili, hanno reso possibile una secolarizzazione che altrove non è mai avvenuta – e che forse mai avverrà.
Stabiliti questi punti cardinali, voglio proporre alcune conclusioni che mi piacerebbe discutere con i lettori, approfittando degli spazi offerti da quella «officina di idee» che vogliamo sia la nostra OL:
- Un’identità in evoluzione non scalfisce il bisogno umano di stabilità, e di appartenenza a qualcosa che superi i confini angusti del nostro ego individuale.
- Un’identità in trasformazione non impedisce di stabilire un minimo comune denominatore che resista attraverso le generazioni che abitano uno stesso luogo.
- Un’identità condivisa significa che non è possibile dare via libera a qualsiasi pretesa: il sogno di un pacifico multiculturalismo è fallito, poiché non tutti gli stili di vita sono compatibili.
- Un’identità comune in una società fluida è la risposta all’inevitabile ritorno di vecchie divisioni e alla ricerca di rassicurazioni espressa soprattutto dai perdenti della tarda modernità.
Il primo passo che dobbiamo compiere, ad ogni modo, consiste nel riconoscere che la globalizzazione – così come l’abbiamo fin qui costruita – non risponderà mai alle necessità profonde delle persone qualunque. Quelle stesse persone che, in un futuro neanche troppo lontano, potrebbero consegnare agli archivi quel movimento liberale che non fu in grado di leggere il suo tempo.
Alessandro Speziali
Capogruppo e Presidente sezionale PLR Minusio