Il timore di ammettere la paura
01 settembre 2017
Negli ultimi tempi la cronaca politica italiana offre uno sguardo rivelatore sui problemi del centrosinistra socialdemocratico, ormai ai bordi della storia e al capolinea del suo arco narrativo. Mentre personalità ormai arcaiche continuano a celebrare una posizione di egemonia culturale, il presente appare ormai chiaramente scivolato di mano, con temi che squarciano schemi di pensiero obsoleti ai quali molti – nonostante tutto – restano aggrappati. Anche da noi.
Una delle questioni centrali riguarda l’immigrazione – e le paure dei cittadini. Finalmente, dopo l’egemonia dei Bersani e D’Alema, c’è chi comincia a picconare capisaldi concettuali cristallizzati, ammettendo che l’afflusso di persone al quale abbiamo assistito in questi anni è un problema, che genera paura poiché ha legami con la criminalità, genera perdita di sicurezza economica e fisica e produce frizioni interculturali. Questo nesso – mediatizzato o no – pone la classe politica davanti a un dilemma: cosa fare di questi sentimenti? Affrontare il problema senza tabù, chiamando le cose per nome, ammettendo cifre e statistiche, intercettando la profonda e sincera inquietitudine che abita le periferie (ma anche i centri città)? Oppure declassare con fastidio la questione al rango di non-problema, a cavallo di battaglia delle destre xenofobe, dei populisti che parlano alla pancia della gente? Questo secondo approccio si sta dimostrando politicamente suicida, poiché oggettivamente distante – tanto concettualmente quanto fisicamente – da migliaia di quartieri, dalla quotidianità delle forze dell’ordine e dal cosiddetto Paese reale. È un’attitudine sbagliata, che cerca insistentemente armamentari sociologici per de-costruire concetti come identità, frontiera, straniero, specializzandosi nell’indignazione compiaciuta e allarmata per l’avanzata dei (presunti) fascistoidi.
Poco importa che si tratti di percezioni soggettive o dati oggettivi: la paura determina le scelte individuali, che hanno una portata collettiva. L’Osservatorio europeo sulla sicurezza ha rilevato come il 46% degli italiani ritenga problematica l’immigrazione, temendola. Trascurare o banalizzare la questione è semplicemente ingiusto e cieco. Anticipo immediatamente l’obiezione-mantra «ma cosa dobbiamo fare, diventare populisti anche noi?». La risposta è no. Affondare seriamente le mani nella carne dei problemi non è demagogia. Pensare il contrario, invece, significa sciaquare via il tema, irriderlo e negarlo. Significa fare del revisionismo radical-chic.
Nel 2017, sulle coste italiane il numero di immigrati è progredito, dopo un 2016 da record con oltre 120’000 sbarchi. Le frontiere sono il sale di uno Stato democratico e – se non ci fossero – l’apparato pubblico sarebbe inerme. Lo sa bene il Ministro dell’Interno italiano che non rispecchia la posizione dei vari Boldrini, Kyenge o Saviano, e affronta il problema con efficacia. Parlando di problema, di emergenza e di tenuta democratica in riferimento all’immigrazione, ha stretto accordi diretti con Paesi africani, ha agito tramite i servizi d’informazione, e – udite, udite – ha stabilito un codice di condotta per le ONG (visto che predicavano umanitarismo e lucravano con la stessa foga).
Al di là del centrosinistra italiano, le forze liberali e borghesi devono occuparsi apertamente di questo problema culturale, economico, sociale. Non è populismo: è realismo, quindi è Politica. Altro che analisi costruttiviste e politiche paracadutate qui e ora dagli anni ’70, perché siamo tutti figli-del-mondo e le frontiere-sono-solo-nella-nostra-mente. Altro che autoaccuse alla nostra società razzista perché ci sarebbe posto per tutti.
Accorgersi e anticipare i problemi, analizzarli senza tabù e agire, anche muscolarmente: questo bisogna fare, nelle parole e nella pratica. Altrimenti la paura continuerà a conquistare l’arena politica e le destre radicali avranno continuamente e (fa male dirlo, ma diciamolo) meritatamente ossigeno. Abbracciare una narrativa che sappia parlare di sovranità, ordine, regole e identità non è l’anticamera di svolte autoritarie: è l’antidoto liberale alle derive.