Alessandro Speziali

Il timore di ammettere la paura

01 settembre 2017

Negli ultimi tempi la cronaca politica italiana offre uno sguardo rivelatore sui problemi del centrosinistra socialdemocratico, ormai ai bordi della storia e al capolinea del suo arco narrativo. Mentre personalità ormai arcaiche continuano a celebrare una posizione di egemonia culturale, il presente appare ormai chiaramente scivolato di mano, con temi che squarciano schemi di pensiero obsoleti ai quali molti – nonostante tutto – restano aggrappati. Anche da noi.

Una delle questioni centrali riguarda l’immigrazione – e le paure dei cittadini. Finalmente, dopo l’egemonia dei Bersani e D’Alema, c’è chi comincia a picconare capisaldi concettuali cristallizzati, ammettendo che l’afflusso di persone al quale abbiamo assistito in questi anni è un problema, che genera paura poiché ha legami con la criminalità, genera perdita di sicurezza economica e fisica e produce frizioni interculturali. Questo nesso – mediatizzato o no – pone la classe politica davanti a un dilemma: cosa fare di questi sentimenti? Affrontare il problema senza tabù, chiamando le cose per nome, ammettendo cifre e statistiche, intercettando la profonda e sincera inquietitudine che abita le periferie (ma anche i centri città)? Oppure declassare con fastidio la questione al rango di non-problema, a cavallo di battaglia delle destre xenofobe, dei populisti che parlano alla pancia della gente? Questo secondo approccio si sta dimostrando politicamente suicida, poiché oggettivamente distante – tanto concettualmente quanto fisicamente – da migliaia di quartieri, dalla quotidianità delle forze dell’ordine e dal cosiddetto Paese reale. È un’attitudine sbagliata, che cerca insistentemente armamentari sociologici per de-costruire concetti come identità, frontiera, straniero, specializzandosi nell’indignazione compiaciuta e allarmata per l’avanzata dei (presunti) fascistoidi.

Poco importa che si tratti di percezioni soggettive o dati oggettivi: la paura determina le scelte individuali, che hanno una portata collettiva. L’Osservatorio europeo sulla sicurezza ha rilevato come il 46% degli italiani ritenga problematica l’immigrazione, temendola. Trascurare o banalizzare la questione è semplicemente ingiusto e cieco. Anticipo immediatamente l’obiezione-mantra «ma cosa dobbiamo fare, diventare populisti anche noi?». La risposta è no. Affondare seriamente le mani nella carne dei problemi non è demagogia. Pensare il contrario, invece, significa sciaquare via il tema, irriderlo e negarlo. Significa fare del revisionismo radical-chic.

Nel 2017, sulle coste italiane il numero di immigrati è progredito, dopo un 2016 da record con oltre 120’000 sbarchi. Le frontiere sono il sale di uno Stato democratico e – se non ci fossero – l’apparato pubblico sarebbe inerme. Lo sa bene il Ministro dell’Interno italiano che non rispecchia la posizione dei vari Boldrini, Kyenge o Saviano, e affronta il problema con efficacia. Parlando di problema, di emergenza e di tenuta democratica in riferimento all’immigrazione, ha stretto accordi diretti con Paesi africani, ha agito tramite i servizi d’informazione, e – udite, udite – ha stabilito un codice di condotta per le ONG (visto che predicavano umanitarismo e lucravano con la stessa foga).

Al di là del centrosinistra italiano, le forze liberali e borghesi devono occuparsi apertamente di questo problema culturale, economico, sociale. Non è populismo: è realismo, quindi è Politica. Altro che analisi costruttiviste e politiche paracadutate qui e ora dagli anni ’70, perché siamo tutti figli-del-mondo e le frontiere-sono-solo-nella-nostra-mente. Altro che autoaccuse alla nostra società razzista perché ci sarebbe posto per tutti.

Accorgersi e anticipare i problemi, analizzarli senza tabù e agire, anche muscolarmente: questo bisogna fare, nelle parole e nella pratica. Altrimenti la paura continuerà a conquistare l’arena politica e le destre radicali avranno continuamente e (fa male dirlo, ma diciamolo) meritatamente ossigeno. Abbracciare una narrativa che sappia parlare di sovranità, ordine, regole e identità non è l’anticamera di svolte autoritarie: è l’antidoto liberale alle derive.