Se l’economia sbaglia narrativa
10 marzo 2017
Dopo decenni di crescita ben ridistribuita e palate di ottimismo alla Fukuyama, l’economia si trova in difficoltà. La globalizzazione policefala ha concesso a milioni di persone un benessere (perlomeno materiale) prima sconosciuto, ma ha scardinato importanti riferimenti identitari e, negli ultimi anni, ha affilato la concorrenza intra- e internazionale, in un erosivo gioco al ribasso. A subirne le conseguenze soggettive (percezioni, pregiudizi, paure) e oggettive (condizioni di lavoro, sicurezza, pressione migratoria ecc.) è in particolare un ceto medio ormai in crisi.
In questa cornice la politica vive una lotta fra registri opposti. Da una parte coloro che applicano insindacabilmente schemi interpretativi disfattisti, dove i dati negativi e le microstorie di difficoltà economiche e sociali sono elevate all’ennesima potenza. Dall’altra, la reazione sconsolata delle forze borghesi ed economiche imbrigliate in un dibattito pubblico feroce e scivoloso da cui non riescono a uscire, se non sott’intendendo con fastidio l’ottusità popolare nel distinguere il bene dal male.
Nel frattempo serpeggia un crescente risentimento, rimpiangendo (nostalgia canaglia!) tempi che appartengono sempre più al retrovisore della storia. In espansione c’è poi il bisogno – tanto istintivo quanto razionale – di punti di riferimento, di capisaldi valoriali, materiali e territoriali. Se a questo sommiamo la relativizzazione dei tassi di crescita pur di riacciuffare un ritmo di lavoro – e quindi di vita – più a misura d’uomo e di famiglia, i campanelli di allarme del sistema attuale hanno decibel sempre più perforanti.
Più che mai, dunque, ci vuole una narrativa che sappia raccontare il mondo che vogliamo costruire. Lo storytelling non coincide sempre solo con l’invenzione di realtà false e nocive, ma può incarnare una realtà a cui ragionevolmente ambiamo. Di certo la strada imboccata dal mondo economico è poco saggia e ancor meno convincente. Il pessimismo di alcuni irriducibili reazionari non è molto differente dal catastrofismo annunciato a ogni piè sospinto dagli ambasciatori degli ambienti produttivi se le indicazioni di voto non saranno disciplinatamente ossequiate. Lo stesso habitat che fino all’altrieri era depositario di lucidità di analisi, oggi sconfina nel cosiddetto “allarmismo pedagogico” che ammala il dibattito politico. L’inflazione di aggettivi trancianti e previsioni apocalittiche anestetizza l’elettore che invece s’attende un metro di giudizio diverso. Si estremizza il futuro, spostando il quid della discussione sulle conseguenze più caricaturali delle proposte indigeste: si finirà a mangiare formiche (Iniziativa sull’economia verde), si perderanno centinaia di migliaia di posti di lavoro (Riforma III delle imprese) e la Svizzera diverrà terra di disumanità (Iniziativa EcoPop), tanto per restare alle nostre latitudini. Voilà, la famigerata post-verità attecchisce negli ex uffizi della Verità.
La narrativa dell’economia dovrebbe invece convincere dell’apporto delle aziende al territorio che abitiamo. Restituire un volto umano alle aziende narrando storie di imprenditoria e manodopera, descrivere cosa e come producono, svelare il gettito che generano quantificandolo in assegni familiari, edifici scolastici, riqualifiche pregiate. Raccontiamoli questi benedetti “capannoni”: se alcuni costituiscono uno sfregio socioterritoriale, altri sono fiori all’occhiello che stimolano altre aziende locali, che collaborano con la SUPSI, che sfamano X famiglie di quella o quell’altra regione. Le sole statistiche non bastano per evitare la pericolosissima la frattura fra sociale ed economico. Bisogna fondere l’economia facendola penetrare nella carne della società attraverso una serie di diapositive da appendere e commentare dalle piazze ai social-media, dai periodici di Coop e Migros al bollettino di Parrocchie sperdute.
L’economia dev’essere la compagna di banco che ti spiega le cose, con passione e concretezza. Non dev’essere la docente lunatica stizzita che reagisce agitando l’indice, ignorando i propri errori e nervosa perché la collega usa argomenti più belli. E, forse, anche più giusti.