Alessandro Speziali

Gondo e le lezioni di vita al bancone del Bellevue

10 novembre 2014

Quest’anno durante il (mio ultimo) corso di ripetizione, siamo stati abitanti temporanei di Gondo, famoso per tre benzinai in cento metri, una dogana viva a intermittenza e il 14 ottobre 2000. La sera del popolarissimo souper facultatif, dopo aver giustiziato un caquelon di fondue e una secchiellata di Dôle blanche all’albergo Bellevue, con un amico camerata ci siamo arenati al bancone. Spariti finalmente i soldati nel bunker, cominciò una chiacchierata con due loquaci autoctoni, ai quali abbiamo chiesto cosa significasse abitare a Gondo, dove lo sguardo non può che salire in verticale, in cui abitano poco più di 70 anime e che pare un nonluogo, uno spazio dove c’è solo il transito di individui di passaggio, senza una particolare identità e una vera relazione con il territorio.

Il discorso si è soffermato subito su tre immagini, appese alle nostre spalle, della frana che tagliò in due il paese, uccidendo quattordici abitanti. Iniziava così un dettagliato viaggio all’indietro dei due gondini. Lei, una giovane donna, ci raccontava alla perfezione quei giorni di quattordici anni fa, con accanto il lento annuire di un uomo che ancora si trascina dentro il peso di quei sassi.

La frana, in cui morì il padre di lei, era difficilmente comprensibile e accettabile sul momento. Sono quegli eventi che possono accadere ovunque, soprattutto alla televisione, ma non certamente fuori dalla propria porta di casa. E invece travolse quel paesino tranquillo, che ha sempre vissuto silenziosamente e per inerzia i ritmi stagionali del collegamento stradale che unisce il Vallese e il Piemonte. “Non una volta ci siamo chiesti perché è capitato proprio a Gondo”. Li guardavamo sorpresi. Niente sangue amaro per le variabili del caso o nessun astio verso il destino, per chi ci crede. “Avendo vissuto il dolore e conoscendo il peso di quanto successo, per nessuna ragione al mondo possiamo augurare a qualcuno, anche inconsciamente, di vivere qualcosa di simile”. Non s’interrogano perché – di riflesso – significherebbe desiderare, in qualche modo, che la tragedia fosse capitata altrove. Una forma di altruismo e bontà d’animo, intimi e genuini, confermati nella loro estremità poco dopo, quando ci ha rivelato che alcune persone non avevano nascosto la soddisfazione per la scomparsa del padre di lei, colpevole di aver ucciso in passato una volpe (!). “Dopo la frana, per cinque anni non ho provato emozioni. Poi piano piano sono ricomparse e ora sono contenta di provare sia gioia sia rabbia. Ma non riesco a odiare. Le persone buone sono di più di quelle malvagie. Quando impari davveroche dall’oggi al domani puoi perder tutto, senza poter far nulla, impari a relativizzare e vedere il mondo con serenità, distinguendo cosa è essenziale e cosa no.”

Si accennò anche al grigioverde. Infatti, i militari a Gondo sono e saranno sempre ben accolti. Nessuno dimentica che furono i primi a essere sul posto dopo la caduta della frana. Tutti si ricordano l’energia e lo spirito di servizio di ogni milite che cercava di trovare sopravvissuti, e non solo vittime. “Ci spiace davvero molto che abbiano dovuto confrontarsi con la tristezza e l’impossibilità di trovar qualcuno ancora vivo”. Ancora una volta, trasmettevano parecchia umanità con grande empatia e semplicità.

Infine abbiamo chiesto loro se, dopo tutto, non avessero mai pensato di trasferirsi altrove. “Non esiste bicchiere” ci dissero giocando col ghiaccio che si scioglieva nell’ennesimo giro “in cui questa storia non riemerga in superficie ”. Ma di volersene andare da Gondo, nemmeno l’idea.

Questo paesino, che a noi pareva in deficit d’identità, ha una sua anima. Eccome. La perenne cicatrice del dramma e la memoria collettiva, il territorio e le proprie origini, la solidarietà attorno a una comunità. Sono tutti elementi che riescono a sconfiggere un evento drammatico che si allontana ogni anno di più, pur rimanendo sempre presente.  “WeischGondo lebt witter”.

Alessandro Speziali