Il sistema e la follia
01 aprile 2013
Luigi Preiti, Anders Breivik, Friedrich Leibacher o Hans Peter Kneubühl. O anche Unabomber. Casi volutamente diversi fra loro (dalla mattanza norvegese alla fuga pittoresca di Bienne), le cui spiegazioni avvengono essenzialmente su due piani distinti. Quello psico-biografico e quello sociosituazionale. Il primo, che mi pare vada per la maggiore, bolla questi atti apparentemente inspiegabili come atti folli, figli di una devianza circoscritta all’intimo del singolo. Un non-senso, rispetto al comune senso di vita comunitaria e regola(menta)ta, che si liquida con l’irrazionalità del gesto individuale, isolato, che deriva dal percorso di vita dell’attore, dalla sua biografia. È un approccio individuale, rassicurante perché sono eccezioni, perché non c’è un problema più grande. In qualche modo non ci tocca e la quiete della massa non è molestata. Poi, a contrario, c’è chi definisce questi episodi violenti come un riflesso lucido, razionale, che trova origine non nell’intimo della persona ma piuttosto nel sistema società in cui l’attore si trova, senza sentirsene tuttavia parte. Non è la classica pazzia e nemmeno follia solitaria, ma una (re)azione – comprensibile ma non per questo giustificabile – a quel cortocircuito per cui l’individuo non riconosce più la legittimità del legame sociale, delle regole comuni, poiché è escluso, emarginato. Tagliato fuori perché ha perso il lavoro, perché vede sgretolare i propri princìpi, perché si sente macinato nei meccanismi di uno Stato che è divenuto un Leviatano senza legittimità. È quindi una spiegazione situazionale, che trova la prima spiegazione nel fallimento della società quale contratto sociale bilaterale fra individui, dove si cede qualcosa in cambio di qualcos’altro. In questo senso, si capisce come alcune testimonianze di questi individui ricordino la locuzione Fidem qui perdit, perdere ultra nihil potest. Persa la speranza, si ha più nulla da perdere. Lo scontro fra queste due letture, la prima individualistica e l’altra olistica, coincide spesso con lo scontro fra due impostazioni ideologiche, dove la responsabilità da una parte è strettamente circoscritta (riduzione?) all’individuo, dall’altra viene estesa (diluizione?) anche al contesto. Di fronte a questa dicotomia, forse, conviene estrarre il concetto della finestra d’opportunità di Charles Tilly, per emulsionare questi due approcci. Il sistema società presenta alcune situazioni (crisi economica, segregazione sociale, eccetera) che sono la miccia sistemica di comportamenti individuali che – in assenza di un forte spirito di appartenenza civica e civile, o di saldi legami famigliari o comunitari – possono esplodere quando il singolo si sente un’isolata particella atomica. Non per nulla, quando si leggono le spiegazioni di alcuni individui, si prova talvolta un’inspiegabile compassione (nel senso di con-dividere, almeno in parte, la sofferenza altrui), esigendo sempre e comunque ancora l’intervento, fermo e risolutore, del sistema, con il braccio sanzionatorio della giustizia. Nel nostro torpore di un’apparente – o verosimile – schizofrenia.